La luce era diversa, in quella fresca mattina di fine settembre del 1499, l’afa estiva, opprimente, stava lasciando la bassa milanese.
Una bella vigna, oltre il fossato della città, fra porta Vercellina e la pusterla di S. Ambrogio, accanto il monastero di San Gerolamo, congeniale a Leonardo poiché era poco distante dal Castello sforzesco e da S. Maria delle Grazie, i due maggiori centri della sua attività.
Leonardo ammirò i grappoli di Pignolo e di Nebbiolo, che fra poco maturi, avrebbero dato quel unico e meraviglioso nettare, che allietava l’esistenza umana dall’origine dei tempi. Si diceva in giro che Leonardo da Vinci fosse astemio, ma l’artista era troppo intelligente per non apprezzare il vino, dono di una natura che amava e rispettava in ogni sua forma. Certo non ne abusava e quasi mai lo consumava nelle taverne, preferiva degustarlo al di fuori da sguardi indiscreti, anche per un motivo preventivo.
Leonardo era talmente abile in alcuni giochi di prestidigitazione, che riusciva a far scatutire da una coppa piena d’acqua bollente fiamme multicolori gettandovi del vino rosso o addirittura trasformava in rosso del vino bianco; non si può certo negare che non avesse familiarità con il “divino licore”.
Della vite lo incuriosiva soprattutto il fatto di come questa pianta nascesse selvatica e opportunamente si diramava in ogni luogo della Terra, dalle pianure alle montagne, dalle foreste alle paludi. L’uomo era riuscito però ad addomesticarla e produrre quel prezioso “divino licore dell’uva”, come lo descrisse Leonardo in una delle sue novelle (“il vino e i maomettani”) e dove provava sincero rammarico per la scelta mussulmana di bandire il vino dalle gioie della vita.
Leonardo da Vinci aveva già compreso che l’alimentazione era l’aspetto più importante del vivere sano, oltre ad essere vegetariano, forse il primo dell’Italia del Rinascimento, raccomandava sempre ai suoi allievi “Se voi star sano, osserva questa norma: non mangiar sanza voglia, e cena lieve; mastica bene, e quel che in te ricive sia ben cotto, e di semplice forma. Di mezzogiorno fa che tu non dorma; El vin sia temprato, poco e spesso, non for di pasto, né a stomaco voto”
Continuando a tastare gli acini dei grappoli turgidi, ormai quasi ad ottima maturazione, Leonardo passava in rassegna ciò che aveva imparato dalla sue ricerche ed esperienze sul vino. Era rimasto particolarmente impressionato dai vigneti che aveva visto arrampicarsi sulle montagne della Valtellina, tanto che scrisse: “Voltolina, com’è detto, valle circundata d’alti e terribili monti, fa vini potenti assai”.
Ma mentre i piacevoli ricordi di viaggio scorrevano dolcemente nella memoria, una voce giovane, fresca, petulante lo chiamò e un giovinetto in una camicia da notte molto concisa, si affacciò sulla porta della bottega stuzzicandolo.
Era il Salaì o Salaino (nel Morgante di Pulci questo nomignolo significava Satana), in realtà Giacomo Caprotti, diventato “allievo prediletto” di Leonardo e assunto quando aveva 10 anni nel 1490 (tra Leonardo ed il Salaì vi erano ben 28 anni di differenza). Discepolo scadente, servo infido , “ladro bugiardo ostinato ghiotto” come pensava Leonardo, ma il piccolo “satana” aveva in compenso un viso d’angelo … ma questa è tutta un’altra storia.