I geroglifici egiziani che significano “uva, vigna, vino” sono tra le prove più significative che la viticoltura egiziana fu altamente sofisticata fin dagli inizi. Sigilli cilindrici con geroglifici incisi venivano fatti rotolare e premuti su pesanti tappi di argilla, che sigillavano orci allungati e privi di manici di forma e capacità unificate, in formati dai 10 ai 20 l..
Un geroglifico impresso sul tappo di un orcio del faraone Khasekhemuy della II^ dinastia, mostra una vite che cresce su una pergola di pali verticali, con l’estremità superiore a forcella per sostenere la pianta, da cui supporti pendono grandi grappoli. Questo modo di coltivare la vite in modo verticale e lineare, che facilita il raccolto del frutto, oltre che la potatura e lo sfrondamento è usato ancora oggi.
Al tempo della VI^ dinastia, alla fine dell’Antico Regno (circa 2200 a.C) tra le “provviste” offerte al defunto, rappresentate simbolicamente su una tavoletta, oltre alla birra venivano esplicitamente specificati cinque vini: il “vino del Nord”, “vino abesh”, “vino sunu”, “vino hamu” e “vino Imet”. Numerosi di questi termini vengono oggi collegati a fattorie vinicole sul delta del Nilo o in aree circoscritte di questa regione, ad es. “sunu”, viene inteso come Sile, dove in seguito sorsero alcuni dei migliori vigneti e da cui giungevano i vini importati dal Levante.
Il vino nelle anfore di Tutankhamon
Nel corredo funerario della tomba di Tutankhamon, morto nel 1323 a.C., a soli 19 anni, sono state rinvenute una trentina di anfore. 26 di esse risalgono agli anni 4, 5, 9 del regno del faraone e ciò conferma che egli regnò circa 9 anni. Poiché le anfore non erano smaltate, all’interno, nei secoli il vino è evaporato e tutto ciò, che oggi resta sono dei depositi appiccicosi sul fondo. Che però sono bastati per risalire alla composizione del vino. Ad averla decifrata a livello molecolare sono stati i ricercatori dell’Università di Barcellona.
Sulle etichette degli orci da vino della tomba del faraone sono menzionati 15 vigniaoli capi. Tra questi due hanno nomi semitici (Khay e ‘Apereshop) che testimoniano la loro provenienza dal Levante, da cui era giunta in Egitto la sapienza enologica. Khay era colui che aveva prodotto più di ogni altro vinificatore, con mezza dozzina di orci a sua firma. Tra questi era anche l’unico a cui vennero attribuito vini di due anni e due tenute, la Casa di Aton e la Casa di Tutankhamon. Delle anfore del vino di Tutankhamon si ricavano pochissime informazioni sulla qualità di vino, a parte quattro etichette dove fu indicato il sdh, un vino dolce, prodotto con una varietà di vite particolarmente dolce o con l’aggiunta di zuccheri (miele o fichi).
Nella tomba di Tutankhamon furono trovati sette “fiaschi siriani”, uno conteneva “feccia di vino essiccata”, un altro aveva un sigillo intatto con l’impronta di un’etichetta da vino. Tutankhamon aveva inoltre splendide coppe per bere, tra cui un elegante calice di alabastro con la forma di loto bianco.
(fonte: “L’archeologo e l’uva” di Patrick E.McGovern, Carocci, ed.)