Egitto Antico: un mondo di vino

I geroglifici egiziani che significano “uva, vigna, vino” sono tra le prove più significative che la viticoltura egiziana fu altamente sofisticata fin dagli inizi. Sigilli cilindrici con geroglifici incisi venivano fatti rotolare e premuti su pesanti tappi di argilla, che sigillavano orci allungati e privi di manici di forma e capacità unificate, in formati dai 10 ai 20 l..

La chiusura era ottenuta inserendo un tappo rotondo di ceramica all’imboccatura dell’orcio e premendovi  sopra un grande cumulo conico di argilla. Questi orci vennero depositati a migliaia nelle tombe dei primi faraoni d’Egitto a Saqqara (Menfi) e Abido. Poiché questi sono tra i più antichi segni scritti del mondo riferibili alla vite domestica e al vino, si resta impressionati nel vedere quanto fossero sofisticati i metodi della viticoltura.

Un geroglifico impresso sul tappo di un orcio del faraone Khasekhemuy della II^ dinastia, mostra una vite che cresce su una pergola di pali verticali, con l’estremità superiore a forcella per sostenere la pianta, da cui supporti pendono grandi grappoli. Questo modo di coltivare la vite in modo verticale e lineare, che facilita il raccolto del frutto, oltre che la potatura e lo sfrondamento è usato ancora oggi.

Un altro dato importante che questi sigilli ci tramandano è che tutti menzionano un faraone, offrendo così una data per l’annata, chiaramente con i limiti della cronologia incerta del primo periodo dinastico e in base alla durata di ciascun re. A volte sono indicati anche il nome dell’azienda vinicola e l’ubicazione, ma più spesso, al posto delle informazioni aggiuntive, il nome del re viene ripetutamente impresso su un tappo usando lo stesso sigillo cilindrico. Il messaggio è chiaro: questo vino apparteneva al faraone o era stato prodotto sotto i suoi auspici.

Al tempo della VI^ dinastia, alla fine dell’Antico Regno (circa 2200 a.C) tra le “provviste” offerte al defunto, rappresentate simbolicamente su una tavoletta, oltre alla birra venivano esplicitamente specificati cinque vini: il “vino del Nord”, “vino abesh”, “vino sunu”, “vino hamu” e “vino Imet”. Numerosi di questi termini vengono oggi collegati a fattorie vinicole sul delta del Nilo o in aree circoscritte di questa regione, ad es. “sunu”, viene inteso come Sile, dove in seguito sorsero alcuni dei migliori vigneti e da cui giungevano i vini importati dal Levante.

Il vino nelle anfore di Tutankhamon

Tutankhamun era solito bere vino perché questa era la bevanda principale della classe nobile nell’antico Egitto. Come avviene anche oggi, il vino era considerato superiore alla birra e costava infatti cinque di volte di più. Aveva una sua divinità, la dea Hathor, come dimostrano le liste delle offerte nei templi e nelle tombe. Fin dalla terza dinastia (2.700 anni avanti Cristo), le tombe sono ricche di rilievi e pitture che raffigurano le diverse fasi della produzione del vino nei minimi dettagli: la raccolta nei vigneti dei Delta e delle Oasi, lo stivaggio dell’uva nei grandi tini di pietra, legno o argilla, la pigiatura con i piedi.

Nel corredo funerario della tomba di Tutankhamon, morto nel 1323 a.C., a soli 19 anni, sono state rinvenute una trentina di anfore. 26 di esse risalgono agli anni 4, 5, 9 del regno del faraone e ciò conferma che egli regnò circa 9 anni. Poiché le anfore non erano smaltate, all’interno, nei secoli il vino è evaporato e tutto ciò, che oggi resta sono dei depositi appiccicosi sul fondo. Che però sono bastati per risalire alla composizione del vino. Ad averla decifrata a livello molecolare sono stati i ricercatori dell’Università di Barcellona.

Le analisi, spettrografia di massa e cromatografia in fase liquida, hanno individuato la presenza di acido tartarico (l’impronta chimica del vino in sé), ma soprattutto l’acido siringico, in cui si decompone la sostanza che dà il colore rosso al vino, la malvidina-3-glucoside. II metodo ha fatto identificare anche la provenienza dell’uva, che coincide con quanto scritto sull’«etichetta»: un vino rosso e dei migliori vigneti egiziani.

Sulle etichette degli orci da vino della tomba del faraone sono menzionati 15 vigniaoli capi. Tra questi due hanno nomi semitici (Khay e ‘Apereshop) che testimoniano la loro provenienza dal Levante, da cui era giunta in Egitto la sapienza enologica. Khay era colui che aveva prodotto più di ogni altro vinificatore, con mezza dozzina di orci a sua firma. Tra questi era anche l’unico a cui vennero attribuito vini di due anni e due tenute, la Casa di Aton e la Casa di Tutankhamon. Delle anfore del vino di Tutankhamon si ricavano pochissime informazioni sulla qualità di vino, a parte quattro etichette dove fu indicato il sdh, un vino dolce, prodotto con una varietà di vite particolarmente dolce o con l’aggiunta di zuccheri (miele o fichi).

Le anfore venivano tappate meticolosamente: nella prima fase della fermentazione si copriva il loro collo con del fango, lasciando un piccolo foro per la fuoriuscita dei gas; si procedeva con l’immagazzinamento, lungo alcuni mesi, per la seconda fase della fermentazione. Le anfore avevano la base rastremata per raccogliere la posa. L’ultima fase della lavorazione era la chiusura ermetica dell’anfora, che riportava in cima i dati relativi al contenuto, l’anno di produzione, la zona di provenienza, il nome del vinaio, né più né meno come accade oggi con i vini di pregio. In base a tali dati venivano stabiliti la qualità del prodotto e il suo prezzo.

Nella tomba di Tutankhamon furono trovati sette “fiaschi siriani”, uno conteneva “feccia di vino essiccata”, un altro aveva un sigillo intatto con l’impronta di un’etichetta da vino. Tutankhamon aveva inoltre splendide coppe per bere, tra cui un elegante calice di alabastro con la forma di loto bianco.

(fonte: “L’archeologo e l’uva” di Patrick E.McGovern, Carocci, ed.)